Non con questa pandemia, che vede le donne penalizzate più che mai nelmolteplice ruolo di “datrice di cura” in famiglia e di lavoratrice in affanno.Non con questi numeri sulla violenza perpetrata alle “compagne” di vita(mogli, partner, fidanzate, figlie). Non con i dati (Istat.it) che ci dicono che il 98% dei nuovi disoccupati a fine annus terribilis 2020 è costituito da donne. Non con le imprese guidate da donne che, dopo un trend crescente (almeno nel numero) dal 2014, vedono un’improvvisa frenata. Non con una segregazione delle donne nel mercato del lavoro, sia orizzontale che verticale, che vede le donne ancora sottorappresentate nei settori STEM e nelle posizioni apicali, nonostante fulgidi esempi di Paesi ed istituzioni guidati da donne, ahimè quasi nella totalità all’estero.
Non nel Paese che, pur con la speranza di vita tra le più elevate al mondo(almeno prima di questa pandemia), continua ad invecchiare e a lasciare culle vuote. E il calo della fecondità e della natalità, non è un problema delle donne. È un’aperta Dichiarazione di mancanza di Speranza e di Futuro.
E allora no, non è (ancora) la Festa delle Donne.
Chiamiamola con il suo nome: la Giornata internazionale delle Donne. L’8 marzo deve essere, ora ed in futuro, l’occasione per fare il punto sulla situazione dei diritti e della parità raggiunti dalle donne, e deve continuare ad essere l’occasione per informare gli uomini e rendere consapevoli le donne sullo stato dei fatti, soprattutto le generazioni più giovani.
Perché è indubbio che ad oggi, 2021, ci siano delle cesure più o meno visibili, più o meno consapevoli, nella vita privata, economica e socio-collettiva delle donne.
Fino alla scuola dell’obbligo – per quelle che ci arrivano alla conclusione dell’obbligo scolastico, almeno – ci insegnano (allo stesso modo che ai nostri compagni, più o meno) che siamo tutte e tutti uguali, meritevoli allo stesso modo a parità di impegno (effort) se partiamo su basi paritarie o rese tali (circumstances). Dopo, che sia mercato del lavoro, formazione professionale o istruzione terziaria, il vento cambia. Così come i proclami, le norme sociali, le regole non scritte della convivenza economica e sociale, privata e pubblica. E la competizione aumenta, e lo scarto aumenta, e lo status quo, segnato da secoli di patriarcato più o meno dichiarato in ogni ambito, permane.
E poi ci sono le crisi, a cui si aggiunge la pandemia.
E allora no, non è (ancora) la Festa delle Donne.
I dati ci dicono questo: che siano anni di boom e crescita (o almeno stabilità) economica, che siano anni di recessione le donne, soprattutto qui, in Italia, lavorano al margine e con fatica, sempre che lavorino (nel mercato o solo in casa, o in entrambi i luoghi) con la giusta protezione e retribuzione, invece che nel sommerso. O ancora peggio, nell’invisibilità.
Perché i dati sull’attività e l’occupazione delle donne ci danno un quadro deprimente, che se uniamo ai dati sulla fecondità e sulle nascite diventano tragici. Era da un po’ di anni la tendenza di Paesi europei più moderni che vedeva un nuovo binomio “più occupazione femminile, più nascite”, che ribaltava il vecchio ed anacronistico trade-off tra lavoro e famiglia. Ma non qui, in Italia.
Un tempo, nel mio lavoro iniziale di ricerca in materia di partecipazione femminile, mi ponevo la domanda: ma se le donne italiane non lavorano e non fanno figli (o non più come ne facevano prima e come sono tornate a fare negli altri Paesi), che cosa fanno? Una risposta verificata e provata non ce l’ho ancora, ma ho il forte sospetto che le norme sociali e i vincoli culturali siano duri da abbattere al pari di altre barriere che non consentono al nostro Paese di andare avanti (inclusione, sostenibilità, ambiente, per citare alcuni settori dove queste barriere sembrano inamovibili).
E allora no, non è (ancora) la Festa delle Donne.
Ci sono due modi per guardare alla situazione delle donne all’interno della crisi economica globale:
- 1) Le donne – non le lavoratrici – soggetto “debole” della nostra società insieme ai giovani ed ai più anziani sono le prime a pagare le conseguenze delle crisi: marginalmente presenti nel mercato del lavoro e nella società civile in poche posizioni e non tra quelle più influenti (o in modo precario, e/o ai livelli più bassi delle gerarchie aziendali) sono le più esposte ai licenziamenti, alla Cassa Integrazione e conseguentemente all’eventualità (sempre più possibile) di impoverirsi come individui e/o di restare vincolate ed economicamente dipendenti come membri in famiglie fragili.
- 2) Le donne nella crisi sono quelle che rompono con il passato – basti pensare alle rivoluzione di costumi e di ruoli nei periodi post-bellici – e creano le condizioni per un nuovo assetto economico, sociale e culturale.
E allora no, non è (ancora) la Festa delle Donne. Ma forse ci stiamo avvicinando.
Preferisco dunque l’ipotesi 2), la seconda visione accennata prima. In fondo il bicchiere mezzo pieno è sempre preferibile al bicchiere mezzo vuoto, il punto è che è arrivato il momento di riempirlo, questo bicchiere, anzi: di passare ad una caraffa.
La questione centrale, allora, è nelle risposte che si danno alle domande che si pongono da decenni:
- i) in senso assoluto, ampliando le misure di questo metaforico bicchiere
- ii) in modo più relativo, con interventi e misure di politica economica nazionale e regionale coordinati, ma anche attuati e monitorati, sanzionando i comportamenti distorti
- iii) non servono nuovi strumenti: molti ci sono già, sono già stati pensati, varati ed in parte anche attuati.
Per il primo punto è necessaria una consapevolezza allargata e crescente, che parta dai più piccoli e dalla loro istruzione e che non si interrompa, che non provochi cesure temporali (dopo la scuola) o istituzionali (nel senso di D.C. North, cioè che non ci sia discrepanza tra il dire teorico ed il fare concreto nella famiglia e nel lavoro).
Per il secondo punto, una valutazione trasversale di genere a livello macro da parte dei decisori di politiche e micro da parte degli esecutori degli interventi: il bilancio di genere e la Valutazione di impatto di genere sono già noti, in uso, ma non da tutti e non con gli stessi obiettivi e risultati. In questo frangente, la mancanza di coordinamento delle misure e dei loro piani di azione o di attendibilità e credibilità delle sanzioni rischia di vanificare totalmente le decisioni pubbliche (amministrazioni a vari livelli) e private (famiglie ed imprese). E questo è uno dei punti più delicati e cruciali.
E allora no, non è (ancora) la Festa delle Donne. Ma forse ci stiamo avvicinando. Forse.
Non c’è abbastanza consapevolezza: non solo l’8 marzo, appunto. A proposito.
Aggiungo: non solo quando c’è crisi. Non solo quando non c’è più lavoro. Non solo quando c’è violenza.
E pur partendo da una violenza di genere che grida a gran voce che c’è un enorme problema socio-educativo collettivo, prima che individuale, che bisogna agire ed in fretta per fermare i femminicidi, non mi riferisco solo a quella violenza (la peggiore).
Anche “lasciare una donna a casa” è una forma di violenza, quando non è frutto di scelta ponderata e spontanea. Ed è anche una forma pubblica di questa violenza: uno Stato che prima fa studiare le donne, e poi non dà loro le opportunità di poter lavorare.
Qual è, infatti, il senso di concedere sussidi per avere un figlio (che dati i tempi sono necessari e sempre troppo pochi), e non consentire poi di affidarlo ad istituzioni fidate (asili nido, servizi di cura per ogni età) e specializzate perché le donne possano continuare a lavorare? Lo stesso interrogativo si può porre per le opportunità di cura per gli anziani e per altri familiari in situazione di dipendenza da cura.
Ed è anche una forma di violenza di tipo privato, ma collettiva: il pregiudizio, lo stereotipo, che inducono i datori di lavoro a diffidare della affidabilità di una lavoratrice solo perché donna (la letteratura dell’economia sperimentale è piena di esempi di “blind auditions” in cui i risultati, a parità di caratteristiche, riportano ad una situazione di parità.
E allora no, non è (ancora) la Festa delle Donne. Ma forse ci stiamo avvicinando.
C’è bisogno, infine, di allargare il discorso anche alla dimensione europea. Con una premessa: il resto delle donne europee versa in condizioni migliori di quelle italiane (con piccolissime eccezioni, dove l’ultimo posto a volte ci è conteso alternativamente dalla Grecia o da Malta). Donne italiane, che stanno comunque meglio di quelle meridionali.
Nell’Unione europea la questione di genere è stata inserita, nella forma di gender pay gap, sin dal 1957. Nella Strategia Europea dell’Occupazione – o “l’Incompiuta”, come mi piace chiamarla quando sono a lezione – era stata inclusa prima come quarto pilastro, poi come uno dei 10 comandamenti nel 2003, ed il gender mainstreaming (1999) era stato introdotto proprio per affermare la trasversalità del problema. Ma dal 2005 in poi, la questione di genere è andata sempre più sbiadendo. Fino ad illuminarsi di nuovo interesse in tempi più recenti. Come se il fenomeno fosse rientrato nei limiti previsti di accettabilità e quindi la “categoria” (ma quale categoria? Le donne sono metà della popolazione, non una categoria, fragile per giunta) fosse stata assimilata alle altre minoranza: etnie, disabili, bambini, anziani.
E’ stato come se il Gender Mainstreaming fosse stato dato per assodato, assorbito, assimilato e dunque si poteva andare avanti nell’agenda. Forse per alcuni/molti altri Paesi è stato così, ma non per noi. Questa ridotta visibilità è stata denunciata da più parti, e quindi periodicamente (tipo: l’8marzo) si organizzano casse di risonanza per argomenti sensibili per le donne: la violenza, i figli, la conciliazione. Come se questi, appunto, fossero questioni di donne.
Niente è più adatto a mantenere lo status quo come l’invisibilità: è poco costosa, è arbitraria e presto passa in secondo, terzo, ultimo piano.
Occorrono interventi su autoconsapevolezza (self-confidence, empowerment), per le donne di ogni età. Qualunque strumento, a questo punto è buono per raggiungere il fine, specie se di natura multidisciplinare. Come il progetto al quale ho dato vita con altri Alumni Fulbright e IVLP (Small Grant 2020 US Embassy in Italy) durante lo scorso lockdown RECOVI-EW(www.recoview.it), che mette in rete partner, istituzioni, accademia e società civile per promuovere autoconsapevolezza e trasmissione di conoscenza in un’ottica di cooperazione piuttosto che di competizione. E nella cooperazione gli esiti sono win-win, nessuno perde, nessuno è escluso.
Rimettere la questione di genere in termini di lavoro e di parità di opportunità e attività, rafforzare la qualità e la partecipazione della forza lavoro esistente diventa fondamentale per la ripresa del Paese.
I numeri sono negativi. E’ l’ora di riposizionare lo Zero allo stesso punto per uomini e donne.
Non assumere le donne deve diventare (come in realtà lo è già) un costo, una occasione perduta. Non accontentarsi. Denunciare i soprusi e le irregolarità. Il lavoro irregolare spiana la strada in maniera esponenziale alla invisibilità.
Come diventa allora un costo non assumere le donne? L’investimento in istruzione, secondo le capacità innate oltre che acquisite, è l’unica arma. Eppure i dati sono confortanti: ci dicono che le donne studiano di più ed ottengono risultati migliori degli uomini, magari un po’(troppo) segregate nelle discipline, ma a livello di titoli conseguiti siamo pari.
Salvo poi sparire dalle statistiche subito dopo. Non partecipare al mercato del lavoro, neanche provarci, ci fa pensare più all’ipotesi del lavoratore scoraggiatoche a quella del lavoratore aggiunto che invece è stata forgiata proprio sulla forza lavoro femminile.
La segregazione ex-ante, già ai tempi della scelta degli studi, porta subito ad un bivio: sparizione (sommerso?) o segregazione ex-post. Con buona pace dell’investimento in istruzione, privato e pubblico, che è di fondamentale importanza soprattutto per il settore privato.
Il vero problema è nella pratica. Il problema ancora oggi è nel rischio di distorsione selettiva, che ci porta a leggere la realtà attraverso la lente data dal contesto in cui viviamo, studiamo e, magari, lavoriamo.
Di quelle stesse donne, oltre che uomini, che negano una questione di genere per il semplice fatto che non la vivono sulla propria pelle o nel proprio contesto.
E allora no, non è (ancora) la Festa delle Donne. Ma forse ci stiamo avvicinando.
Raffaella Patimo
Ricercatrice e docente di Economia del lavoro al DiEF, Dipartimento di Economia e Finanza dell’Università “A. Moro” di Bari,
Team founder di RECOVIEW