Con la Legge n° 162 del 5 novembre 2021 – G.U. 18 novembre 2021, n. 275, entrata in vigore i primi di dicembre il legislatore è intervenuto in materia di pari opportunità nel contesto lavorativo al fine di rafforzare la tutela già offerta dal Dlgs. 198/2006 e successive modifiche e integrazioni (c.d. Codice delle Pari Opportunità).
A fronte di una crescente sensibilità politica e collettiva in materia di pari opportunità di genere, a seguito di incontri tenuti dalle Consigliere di Parità con l’On. Francesca Gribaudo, promotrice e relatrice della Legge 162/2021, si era avvertita la necessità di intervenire nuovamente sul Codice Pari Opportunità – che negli anni già è stato modificato e integrato più volte anche per recepire le direttive europee o nuove leggi nazionali – al fine di rafforzare la tutela della parità tra uomo e donna in ambito lavorativo.
La legge prevede un ampliamento della tutela antidiscriminatoria e premia, con meccanismi di certificazione di genere, le aziende virtuose che dimostrano attenzione alla parità.
La Legge 162/202 è stata già trattata su questa Rivista in cui è stato fatto, soprattutto, un focus sui pilastri su cui si base la strategia per favorire la Parità salariale.
Questo contributo, invece, vuole approfondire le modifiche al Codice Pari Opportunità (artt. 1 e 2), assumendo il punto di vista delle Consigliere di Parità che, istituzionalmente, promuovono le pari opportunità in ambito lavorativo e, soprattutto, sono le/i garanti del rispetto del principio di non discriminazione tra uomo e donna in ambito lavorativo. Le Consigliere di Parità ai vari livelli – Nazionale, Regionale, Provinciale – nell’esercizio delle loro funzioni sono, infatti, pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria delle discriminazioni di cui vengono a conoscenza.
Articolo 1: modifiche all’art. 20 del D.Lgs. 198/2006
L’articolo 20 del Codice delle Pari Opportunità prevede che venga presentata in Parlamento, ogni due anni, una relazione contenente i risultati del monitoraggio sull’applicazione della legislazione in materia di parità e pari opportunità nel lavoro. Nel nuovo articolo 1 della Legge 162/2021, tale onere permane, ma cambia il soggetto onerato che non è più il Ministro del lavoro, ma la Consigliera o il Consigliere nazionale di parità che in tal modo acquisisce una nuova responsabilità e un ruolo ancor più rilevante, perché la suddetta relazione, individuando le criticità insite nel mercato del lavoro, può concentrarsi sulle possibili direzioni innovative da intraprendere in ottica di genere per superare le disuguaglianze strutturali e territoriali uomo-donna.
Art. 2: modifiche all’art. 25 del D.Lgs. 198/2006
L’articolo 25 è una disposizione importante del Codice delle Pari Opportunità poiché fornisce una definizione delle nozioni di discriminazione diretta ed indiretta.
L’articolo 2 della L. n. 162/2021 ha il pregio di essere intervenuto su tale disposizione cardine al fine di:
(a) ampliare (comma 1 e 2) le fattispecie della discriminazione diretta ed indiretta anche a tutela dei/delle candidati/e in fase di selezione del personale. L’accesso al lavoro delle donne, purtroppo, si scontra con molti stereotipi e pregiudizi, soprattutto sul tema della maternità. Basti guardare, infatti, tutti i dati relativi all’occupazione femminile e immediatamente si evidenzia che le lavoratrici madri sono ancor meno occupate rispetto ai padri, ma anche rispetto ad altre lavoratrici non madri.
La Fig. 1 fa riferimento al Tasso di occupazione per genere secondo la presenza nel nucleo familiare di 1 figlio in età 0-1 anno. In presenza di figli la partecipazione maschile al lavoro aumenta e quella femminile si riduce. Il passaggio avviene col primo figlio e si incrementa con il secondo, senza particolari differenziazioni a livello territoriale.
Ancora oggi, nonostante la legge lo vieti, molte donne durante i colloqui di lavoro ricevono domande personali su: “ha intenzione di sposarsi a breve?”, oppure “ha figli?”. Purtroppo il pregiudizio nei confronti della lavoratrice madre è pervasivo in tutti i settori di occupazione femminile.
In molte situazioni, inoltre, le Consigliere di parità devono intervenire su bandi/Avvisi di selezione discriminatori.
Recentemente una società aveva pubblicato un avviso di selezione pubblica per “Addetti all’Area spazzamento, raccolta, tutela e decoro del territorio”. In tale avviso, oltre ad una serie di requisiti e prove (una prova scritta di carattere generale, un approccio e guida di automezzi) , si prevedeva che i concorrenti di sesso femminile, prima dell’effettuazione delle prove fisiche dovevano dichiarare di non trovarsi in stato di gravidanza. In tal caso, la Commissione avrebbe, infatti, disposto l’esclusione della concorrente dalla selezione per impossibilità di procedere alle prove fisiche previste dal bando (un elevato numero di flessioni…). È chiaro che ci troviamo davanti ad una discriminazione. L’intervento della Consigliera Regionale di Parità è stato determinante per la modifica dell’avviso. In caso, infatti, di gravidanza, la Commissione esonera la concorrente dalle prove fisiche attribuendole un punteggio minimo convenzionale.
Casi, invece, di Avvisi pubblici di discriminazione indiretta possono, per esempio, prevedere la medesima altezza per uomini e donne. Sappiamo, invece, che l’altezza media di un uomo è molto più elevata di quella di una donna.
Ecco perché è molto importante che nella nuova definizione di discriminazione dell’art. 25 si sia fatto esplicitamente riferimento alla “selezione del personale” sia per la discriminazione diretta sia in quella indiretta.
(b) specificare la nozione di discriminazione intervenendo a integrale modifica del comma 2-bis dell’art.25. In particolare, nella versione previgente della disposizione, costituiva discriminazione qualsiasi trattamento meno favorevole che fosse motivato dallo stato di gravidanza, di maternità o paternità e dall’esercizio dei relativi diritti.
Il nuovo comma 2-bis individua una discriminazione non solo in ogni trattamento, ma anche in ogni modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che in ragione del sesso, dell’età anagrafica, o delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza, di maternità o paternità e dall’esercizio dei relativi diritti ponga o possa porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:
– posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori;
– limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali;
– limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera.
Tale nuova definizione è molto importante per le Consigliere di Parità che, nell’esercizio delle loro funzioni, raccolgono le denunce di madri (e padri) in riferimento proprio alla difficoltà di conciliare l’organizzazione del lavoro con i tempi della conciliazione.
Si pensi, per esempio, alle dimissioni dal lavoro a seguito di maternità e paternità che anche nel periodo pandemico dell’anno 2020 sono state complessivamente 40.021 di cui 30.911 lavoratrici madri e 9.110 lavoratori padri. Dal raffronto di tali dati con quelli riferiti all’annualità precedente, si evince che nel 2020 le convalide totali sono calate di oltre 9.000 unità rispetto al 2019 (-17,8%). Questa diminuzione, tuttavia, non è avvenuta in modo uniforme per uomini e donne. Le convalide riferite a donne, calano infatti di meno del 13% rispetto all’anno precedente mentre quelle riferite a uomini, diminuiscono di più del 31%. Questa differenza nell’entità del calo si traduce in un rapporto percentuale diverso tra le convalide riferite a uomini e donne: se nel 2019 quasi il 73% riguardavano lavoratrici madri, nel 2020 esse costituiscono oltre il 77% del totale. Questo quadro evidenzia come il recesso maschile dal mercato del lavoro in condizione di genitorialità, già ordinariamente meno frequente di quello femminile, si contrae ulteriormente nel 2020 e in modo molto più incisivo di quello femminile.
È, molto interessante, conoscere le motivazioni di lavoratrici madri e padri rispetto alle dimissioni dal lavoro. Sul totale delle convalide, la motivazione più frequente continua ad essere la difficoltà di conciliazione dell’occupazione lavorativa con le esigenze di cura della prole sia per ragioni legate alla disponibilità di servizi di cura che per ragioni di carattere organizzativo riferite al proprio contesto lavorativo.
Esiste, tuttavia, una profonda differenza di genere nel dato relativo alle motivazioni: la causale del recesso individuata nella difficoltà di esercizio della genitorialità in maniera compatibile con la propria occupazione, nelle diverse articolazioni proposte, è quasi esclusivamente femminile. Il 96% delle motivazioni ricondotte alla difficoltà di conciliazione per ragioni legate all’organizzazione del lavoro riguarda le donne. La prevalente motivazione delle convalide riferite a uomini, di contro, è il passaggio ad altra azienda.
Un altro dato significativo sono le persone che si recano dalle Consigliere di parità per denunciare discriminazioni sul lavoro. Gli accessi per discriminazione di genere sul lavoro sono stati 2.738 di cui 2327 donne e 411 uomini, le persone prese in carico, nel 2020, dalle consigliere sono stati 967. Di queste il dato più alto (tab. 1) è quello relativo alla conciliazione e all’organizzazione del lavoro (242 donne e 64 uomini). A questo dato si devono sommare 48 donne e 8 uomini che si sono rivolti alle Consigliere per denunciare discriminazioni relative alla contrattazione e all’organizzazione del lavoro.
In molti casi le Consigliere di Parità hanno dovuto attivare azioni in giudizio antidiscriminatorie.
Esemplare, ai fini dell’importanza che la modifica della definizione di discriminazione ha per il benessere di lavoratrici madri e lavoratori padri, è stata la sentenza del Tribunale di Firenze che stabilisce il “diritto alla conciliazione” ai fini della cura.
La discriminazione, partita da una denuncia individuale avverso l’Ispettorato del Lavoro di Firenze, è stata, poi, qualificata come volta all’accertamento di una discriminazione indiretta di carattere collettivo per l’organizzazione dell’orario di lavoro.
La Consigliera Regionale della Toscana, ricorrente, ha “provato che l’ordine di servizio …. e le successive modifiche e integrazioni introdotte, determinano nel loro complesso una potenziale discriminazione indiretta in danno dei genitori lavoratori (soggetti portatori del fattore di rischio costituito dalla maternità o paternità, v. art. 25, co. 2-bis d.lgs. n. 198/2006), e, in particolare, delle lavoratrici madri (soggetti che cumulano il fattore di rischio costituito dal sesso femminile con il fattore di rischio costituito dalla maternità), senza che, dal canto suo, il datore di lavoro pubblico convenuto abbia comprovato la sussistenza di una finalità legittima perseguita con mezzi appropriati e necessari“.
Questa vicenda giudiziaria dimostra quanto sia importante l’introduzione, nella definizione di discriminazione, del tema dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro in ragione del sesso, dell’età anagrafica, o delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza, di maternità o paternità.
D’altra parte la stessa Direttiva europea del 20 giugno 2019 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio, dispone diritti individuali relativi non solo ai congedi di paternità, parentali e per prestatori di assistenza, ma anche modalità di lavoro flessibili per i lavoratori che sono genitori o i prestatori di assistenza.
“Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che i lavoratori con figli fino a una determinata età, che non deve essere inferiore a otto anni, e i prestatori di assistenza devono avere il diritto di chiedere orari di lavoro flessibili per motivi di assistenza”.
Dunque una sentenza lungimirante quella del Tribunale di Firenze che fa proprio uno dei diritti individuali disposti dalla Direttiva europea che ancora non è stata recepita dall’Italia, ma che trova nella modifica all’art. 25 del Codice Pari Opportunità una sua incontrovertibile collocazione nella discriminazione indiretta.
Resta inteso che le Consigliere di Parità Regionali e Nazionali sono coinvolte anche nella modifica dell’articolo 46 (art. 3 della Legge 162/2021): sono infatti le Consigliere Regionali che elaborano ogni biennio i risultati dei Rapporti delle Aziende che poi inviano alla Consigliera Nazionale; e nella certificazione della Parità di Genere, art. 46 bis (art. 4 della Legge 162/2021), la Consigliera Nazionale è nel Comitato Tecnico permanente sulla certificazione delle Imprese.
La strada per una piena occupazione femminile è ancora molto lunga e irta di ostacoli. L’aumento delle diseguaglianze di genere è cresciuto con la pandemia e parte da un dato strutturale dell’occupazione che vede al 67,8% il tasso di occupazione degli uomini e al 49,5% quello delle donne (in diminuzione rispetto al 2019). La questione della scarsa quantità e qualità dell’occupazione femminile nel nostro Paese è stata sempre percepita come una questione di pari opportunità di genere, ma invece è necessario tenere presente che è una questione che riguarda lo sviluppo economico di un Paese che continua a lasciare ai margini più della metà della popolazione.
La Legge 162/2021 va invece in questa direzione ed è un primo passo importante.
Prof.ssa Serenella Molendini
Consigliera Nazionale di Parità supplente