Il tema delle molestie, e di quelle sessuali in particolare, sul lavoro continua ad essere un tema poco conosciuto e narrato.

Le fonti statistiche e le indagini mirate ci raccontano, però, che il fenomeno è esteso. 

L’ultima indagine ISTAT, del febbraio 2018, rileva che sono 1 milione 404 mila le donne tra 15 e 65 anni che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul luogo di lavoro, o da parte di un collega o di un datore di lavoro. 

Nel 2019 è stata presentata la prima inchiesta sulle molestie subite dalle giornaliste nelle redazioni italiane, promossa dal Comitato pari opportunità della Federazione nazionale della stampa italiana e curata dalla statistica Linda Laura Sabbatini. Un’indagine che ha scoperchiato un mondo sommerso con l’85% delle intervistate che hanno rivelato di aver subito sul posto di lavoro una forma di molestia: battute, insulti, ma anche pressioni, ricatti, stalking e violenza sessuale. 

Più di una persona su cinque, quasi il 23 per cento, nel mondo ha subito violenza e molestie di natura psicologica o sessuale nell’ambito di lavoro. È quanto emerge dalla prima analisi globale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), della Fondazione Lloyd’s Register e di Gallup del 2022. Tra i gruppi con maggiori probabilità di essere vittima da diversi tipi di violenza e molestie si includono le giovani donne che sono doppiamente esposte a violenza e molestie sessuali e ancor di più le donne migranti. 

Le denunce sono, invece, molto poche. E questo è un problema soprattutto di natura culturale. 

I comportamenti molestanti, ricattatori e discriminanti del capo di turno verso la donna vengono quasi considerati normali, violenze che spesso non vengono neanche riconosciute perché fanno parte del ruolo.

Un interessante filone di studi sociologici mette in evidenza come molestie e molestie sessuali sono presenti dove la lavoratrice è in prova, interinale, in genere dove non esistono strumenti di stabilità reale e pertanto la persona resta assoggettata anche alla necessità di conservare il lavoro essendo un soggetto che più di ogni altro subisce le pressioni del superiore gerarchico, a volte poco evidenti per la potenzialità aggressiva dello stesso sistema. 

Tuttavia, la narrazione e la consapevolezza del fenomeno delle molestie sessuali è cominciata a cambiare grazie al movimento del MeToo che ha reso pubbliche le violenze subite dalle donne sul lavoro e agite da uomini con un forte potere accentrato nelle loro mani. Grazie a quel movimento, nato nel 2017, quando uscì un articolo di denuncia sul New York Times sulle violenze e molestie sessuali del più potente produttore di Hollywood, Harvey Wenstein, c’è stata una vera e propria onda che ha travolto tutto il mondo e tutti i settori produttivi. Le donne si sono raccontate senza paura di essere giudicate. Solo l’Italia è stato uno dei pochi luoghi al mondo in cui quasi nessuna donna si è azzardata a fare nomi, se non una piccola minoranza che è stata silenziata con un’opera di vittimizzazione secondaria. Come se il milione e mezzo di donne che subiscono molestie sul lavoro in questo Paese fosse “aggredito da un esercito di fantasmi.”

Eppure dal punto di vista giuridico e normativo l’Italia da tempo si è interessata al fenomeno delle molestie sessuali che rappresentano l’ultima frontiera del diritto antidiscriminatorio. 

Prima ancora di attirare l’attenzione del legislatore, le molestie sessuali erano già state riconosciute, e considerate alla stregua di comportamenti discriminatori, dalla giurisprudenza, che ha svolto per lungo tempo un ruolo di supplenza rispetto al legislatore nell’elaborazione dei precetti giuridici e delle relative sanzioni, richiamandosi principalmente ai generali principi dell’ordinamento che tutelano la dignità e la libertà di autodeterminazione della persona umana (diritto alla salute – art. 32 Cost. e il diritto alla dignità umana – art. 41 Cost.).

D’altra parte anche le autorità comunitarie si erano già da tempo interessate al fenomeno delle molestie nei luoghi di lavoro, in particolare attraverso la “Raccomandazione della Commissione, n. 131 del 27 novembre 1991, sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul lavoro”, in cui in allegato veniva riportato il Codice di condotta relativo ai provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali.

Il riconoscimento giuridico vero e proprio, però, arriva per influenza del diritto comunitario, ovvero in sede di trasposizione della direttiva n. 73 del 23 settembre 2002, che, appunto, descrive i contorni del fenomeno delle molestie e precisa che esse “sono considerate “discriminazioni fondate sul sesso”. 

In particolare, le molestie sessuali sono definite dalla direttiva menzionata come tutti quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando, un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo. 

I contenuti di tale direttiva sono poi stati trasfusi, senza modificazioni, nella Direttiva 2006/54/CE, una sorta di testo unico del diritto comunitario nella materia della parità e pari opportunità fra lavoratori e lavoratrici, e recepite prima nel dlgs 145/2003, successivamente nel dlgs. 196/2000 e poi nel dlgs. 198/2006 (Codice Pari Opportunità uomo-donna). Si sono poi succedute altre integrazioni, come il dlgs. 5/2010 che aggiunge il comma 2-bis all’art. 26, allargando la definizione di discriminazione anche ai “trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comportamenti di cui ai commi 1 e 2 o di esservi sottomessi”. 

Seguendo l’impostazione della direttiva comunitaria, l’art. 26 del Decreto legislativo 198/2006 (Codice delle pari opportunità) considera sia le molestie, sia le molestie sessuali “come discriminazioni” (art. 26, commi 1 e 2):

  1. le molestie sono “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” (art. 26, comma 1);
  2. per molestie sessuali, invece, si intendono “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” (art. 26, comma 2).

Che cosa vuol dire che le molestie e le molestie sessuali sono considerate come discriminazioni? Significa che esse non potrebbero essere considerate comportamenti discriminatori, se non fosse il legislatore a qualificarle tali. 

In effetti, dal punto di vista meramente fattuale, nel caso delle molestie non viene in considerazione un trattamento penalizzante nei confronti di un lavoratore accompagnato da un trattamento di favore riservato al lavoratore dell’altro sesso (ovvero l’ipotesi classica della discriminazione di sesso). 

Il fatto che le molestie vadano considerate come discriminazioni, d’altra parte, implica che esse siano assimilate alle discriminazioni vere e proprie sia sul versante sanzionatorio, sia su quello processuale.

Il legislatore comunitario si è preoccupato innanzitutto di sanzionare il cosiddetto ricatto sessuale, stabilendo che “il rifiuto di, o la sottomissione a, tali comportamenti (molestie e molestie sessuali) da parte di una persona non possono essere utilizzati per prendere una decisione riguardo a detta persona”. Si tratta di una prescrizione che il legislatore italiano ha raccolto, precisando che qualsiasi atto inerente al rapporto di lavoro (un mutamento di mansioni, un trasferimento, un provvedimento disciplinare ecc.) è nullo se adottato ‹‹in conseguenza del rifiuto o della sottomissione›› ai comportamenti molesti (art. 26, comma 3, del Codice delle pari opportunità). 

Il 21 giugno 2019, un nuovo strumento internazionale sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro viene adottato da 187 Paesi: la Convenzione n. 190 e la Raccomandazione n. 256 che l’accompagna, dalla Conferenza internazionale del lavoro promossa dall’OIL. L’Italia ratifica tale strumento con la Legge 4 del 15 gennaio 2021, pubblicata su Gazzetta ufficiale n°20 del 26 gennaio 2021. 

La Convenzione richiama i 187 stati membri dell’OIL alla loro responsabilità di promuovere “tolleranza zero” come standard generale e introduce una serie di importanti innovazioni. Si tratta del primo trattato internazionale che stabilisce il diritto di tutti, non solo di qualche gruppo specifico, a un mondo del lavoro libero da violenza e da molestie, e che precisa cosa debba essere fatto, e da chi, per prevenirle e affrontarle. La Convenzione riconosce che la violenza e le molestie nel mondo del lavoro “possono costituire una violazione o un abuso dei diritti umani. Sono una minaccia per le pari opportunità, inaccettabili e incompatibili con un lavoro dignitoso”. 

Significativa, nell’art. 1 lettera a), la definizione di violenza e molestia come “un insieme di pratiche, comportamenti, inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico e include la violenza e le molestie di genere.” In questa definizione c’è tutta la differenza con il fenomeno del mobbing i cui comportamenti persecutori si manifestano con carattere di ripetitività e sistematicità, mentre l’illiceità delle molestie è suscettibile di emergere anche in relazione a vicende isolate.

Per promuovere un mondo del lavoro sicuro e libero da violenze e molestie la Convenzione promuove un “approccio inclusivo, integrato e rispondente al genere”. Così facendo, ribadisce la preoccupazione che nessuno venga lasciato indietro e sottolinea la consapevolezza che nessuna misura, politica o istituzione, da sola, possa mettere fine o prevenire, violenze e molestie sul lavoro, ma che solo un pacchetto coerente di misure e la cooperazione degli attori interessati può farlo, e infine, che una tutela efficace deve sempre tener conto delle circostanze specifiche di uomini e donne. Un tale approccio deve includere, tra le altre, l’adozione di strategie per la prevenzione e il contrasto alla violenza e alle molestie, l’istituzione di misure sanzionatorie; la garanzia per le vittime di accedere a meccanismi di ricorso, di risarcimento e di sostegno; lo sviluppo di azioni educative e formative di sensibilizzazione; la garanzia di ispezione e di indagini efficaci grazie agli Ispettorati del Lavoro o altri organismi competenti (come per esempio le Consigliere di Parità).

Considerata, infatti, la difficoltà di reazione della vittima di molestie sessuali, è quanto mai opportuna l’attivazione delle Consigliere di parità, valorizzando al massimo le possibilità di soluzione stragiudiziale delle controversie, secondo lo spirito di riforma del dlgs. n. 198/2006, ma anche giudiziale. La Consigliera di parità, inoltre, potrà anche costituirsi parte civile in un eventuale processo penale nel caso in cui la lavoratrice volesse continuare la sua azione. 

La Consigliera di parità è, infatti, legittimata a costituirsi parte civile nel procedimento penale, non quale ente rappresentativo di interessi diffusi, ma quale soggetto danneggiato dal reato, laddove lo stesso sia commesso sul luogo di lavoro e la condotta posta in essere dall’autore del reato rivesta carattere discriminatorio collettivo o individuale. 

La prima sentenza che riconosce tale legittimazione è la Sentenza del 16 aprile 2009, n. 16031 della Corte di Cassazione, Sezione VI penale, che ha ritenuto ammissibile la costituzione di parte civile della Consigliera regionale di parità (della Regione Piemonte) nell’ambito di un processo per molestie sessuali sul luogo di lavoro. 

Dalle Relazioni annuali che le Consigliere di Parità sono tenute a inviare ogni anno alle Consigliere Nazionali emerge, rispetto al passato, un aumento di accessi presso gli uffici territoriali, per le molestie sessuali. 

Nel Nord, dove c’è maggiore occupazione ci sono state più denunce sia di molestie sia di molestie sessuali. 

Le Consigliere di Parità in quest’ambito hanno condotto azioni in giudizio individuali e collettive con sentenze molto interessanti. 

Promuovere, dunque, la parità nella diversità, oggi, significa uscire dallo stereotipo donna vittima vs uomo che esercita il suo potere in modo violento, ponendosi come osservatori di una dinamica da modificare. La sfida è creare e promuovere nelle istituzioni, riflessioni e atteggiamenti che permettano di coltivare il benessere di chi lavora, attivare azioni positive (come il codice di condotta e molta formazione), collaborare con organismi preposti a tale scopo, dalla Consigliera di fiducia, alle organizzazioni sindacali, alle Consigliere di Parità. Quadrato Rosso

[*] Consigliera Nazionale di Parità supplente e Presidente dell’Associazione CREIS – Centro Ricerca Europeo per l’innovazione Sostenibile.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here